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Tecnologia e giovani, il calcio come metafora della vita: l’appello di Mkhitaryan è un monito per tutti
Mkhitaryan critica l’uso eccessivo del telefono tra i giovani calciatori: “Così si perde contatto con la realtà e con la squadra”.

Nel calcio moderno, dove tutto sembra correre alla velocità di una notifica, le parole di Henrikh Mkhitaryan risuonano come un invito alla riflessione. Il centrocampista dell’Inter, in un’intervista a La Gazzetta dello Sport, ha sollevato una questione che va ben oltre il pallone, toccando uno dei nervi scoperti della nostra epoca: l’abuso della tecnologia tra le nuove generazioni. “Se ti concentri su una sola stella, non vedi più le altre”, ha detto, paragonando lo smartphone a un cielo notturno che viene oscurato dalla nostra ossessione per un solo punto luminoso. Una metafora poetica che nasconde una critica concreta.
Tecnologia e giovani nel calcio: l’appello di Mkhitaryan
Mkhitaryan parla con l’esperienza di chi ha attraversato più generazioni calcistiche, dai primi anni Duemila fino all’era post-pandemia, dove i rapporti umani si sono sempre più mediati da uno schermo. La sua osservazione è semplice ma profonda: “Non mi piace che si usi troppo il telefono in spogliatoio o in palestra”. Non è solo questione di distrazione. È una perdita di contatto, reale e simbolica, con ciò che ci circonda.
Nel calcio, lo sguardo alzato è tutto: vedere il compagno libero, intuire il movimento dell’avversario, leggere la partita. Ma come puoi farlo se, prima ancora di entrare in campo, hai allenato il cervello solo a reagire a vibrazioni e schermi?
Generazione Z: iperconnessi, ma disconnessi dal reale
La riflessione del giocatore armeno non è un attacco alla tecnologia, ma una critica al suo uso compulsivo e poco consapevole. La Generazione Z, quella dei nati tra la fine degli anni ’90 e il 2010, è cresciuta con lo smartphone in mano. È abituata a comunicare con le emoji più che con gli sguardi, a ricevere gratificazione immediata con un like, più che con il sudore dell’allenamento.
Questo ha delle conseguenze evidenti: difficoltà di concentrazione, calo dell’empatia, ansia da prestazione. Nel calcio, come nella vita, l’eccesso di stimoli digitali rischia di spegnere la creatività e l’intelligenza emotiva. Due qualità fondamentali per chi deve decidere in un secondo se passare, tirare o dribblare.
Lo spogliatoio come luogo di crescita, non solo di preparazione
Mkhitaryan sottolinea un altro aspetto importante: lo spogliatoio non è solo un luogo tecnico. È un ambiente sociale, formativo, dove si costruisce il gruppo, si affrontano le difficoltà, si impara dagli altri. Ma se ognuno è chino sul proprio dispositivo, quel luogo perde la sua funzione educativa. Il rischio è che i giovani atleti crescano isolati, privati di quelle dinamiche interpersonali che fanno di una squadra qualcosa di più di undici nomi su una distinta. Il telefono, in questo senso, può diventare un muro invisibile, che separa invece di unire.
Pressione mediatica e talento: il caso Pio Esposito
Nel corso dell’intervista, Mkhitaryan ha voluto anche spezzare una lancia a favore di Pio Esposito, giovane talento italiano. “C’è troppa pressione su di lui, e non mi piace”, ha detto. È un altro tema caldo del calcio moderno: l’hype.
I social, i media, i tifosi affamati di nuovi idoli spesso costruiscono aspettative enormi su ragazzi poco più che adolescenti. La visibilità diventa un’arma a doppio taglio: dà fama, ma brucia in fretta. E chi non regge la pressione rischia di perdersi. Il messaggio è chiaro: servono pazienza, rispetto dei tempi e percorsi personalizzati. Non tutti devono essere campioni a 20 anni. Il talento va coltivato, non sovraesposto.
Oltre il calcio: un messaggio per la società
Le parole di Mkhitaryan non parlano solo agli allenatori o ai compagni di squadra. Parlano a genitori, insegnanti, dirigenti, educatori. In un’epoca in cui l’iperconnessione sembra inevitabile, è necessario ritrovare spazi di presenza. Di silenzio. Di ascolto.
Lo sport può essere un antidoto alla disattenzione digitale, ma solo se recupera la sua dimensione umana. Basta pensare a quanti bambini iniziano a giocare solo per divertirsi, e smettono perché diventano “progetti” da monetizzare, giudicati da numeri e statistiche ancor prima di diventare adulti.
Alzare lo sguardo, dentro e fuori dal campo
“Guardare solo il pallone e non i compagni” è una metafora perfetta della crisi relazionale che attraversa molti giovani. Serve una cultura diversa, più attenta alla persona che al personaggio. Un calcio che non dimentichi che, prima di tutto, si gioca insieme. E forse, anche fuori dal campo, possiamo imparare qualcosa: spegnere lo schermo, alzare lo sguardo e ricominciare a vedere tutte le stelle, non solo quella che brilla di più.
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