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Italia, quanta paura: allarme Gattuso in A, paradosso Inter, esempio Comotto e il sudamerica
Talenti italiani in crisi: troppi stranieri in Serie A, vivai orientati al risultato e paura di lanciare i giovani. Perché l’Italia fatica a produrre nuovi campioni.

L’allarme in Serie A: tanti stranieri in Italia e le difficoltà coi giovani
“È la paura che ci frega, sempre” – diceva un giovane Nicolas Cage in Fuori in 60 secondi. E la paura, nel calcio italiano, è diventata un nemico silenzioso e costante. La paura di perdere, la paura di sbagliare, la paura di lanciare un ragazzo di 17 anni e vederlo affondare. Gli allenatori scelgono la sicurezza, si rifugiano nell’usato sicuro. Non si rischia più. Il diritto all’errore sembra non essere contemplato per i giovani talenti italiani. E così, in un campionato sempre più pieno di stranieri e carte d’identità ormai consumate, cresce la sensazione che qualcosa si stia irrimediabilmente spezzando.
Gattuso e l’allarme stranieri, come incide sull’Italia
“Oggi in Serie A siamo al 68% di stranieri. Come possiamo crescere così?”, ha tuonato recentemente Gennaro Gattuso. Il dato è reale, impietoso. In Serie A quasi 7 calciatori su 10 non sono italiani. Questo non sarebbe un problema se il livello fosse altissimo e la competizione favorisse la crescita dei giovani italiani. Ma così non è.

Gattuso Italia
Viene allora da chiedersi: il problema è che i talenti italiani non ci sono o che non crescono nel modo giusto? Il problema vero sono la mancanza di ragazzi in strada o i settori giovanili sono diventati fabbriche di risultati, più che di calciatori? Il “risultatismo” – quella mentalità che premia chi vince subito, non chi cresce meglio – ha offuscato lo sguardo di tecnici e dirigenti. Si preferisce portare a casa un trofeo con l’U14 piuttosto che accompagnare un talento verso l’esordio in prima squadra. Ma il vero obiettivo di un vivaio non è vincere, è formare.
La testimonianza di Fabregas
A sollevare un’altra voce autorevole è stato Cesc Fabregas, ora allenatore del Como in Serie A: “Preferirei sempre un giovane italiano, ma non ce ne sono”. Una frase che ha fatto rumore. Dove sono finiti questi giovani? Sono davvero spariti, o semplicemente non giocano per paura? Alcuni nomi, in realtà, ci sono. Ahanor (2008, Atalanta), Kouadio (2006, Fiorentina), Pio Esposito (2005, Inter). Ma sono tutti fermi a un bivio: restano comparse o diventano protagonisti? Spesso la risposta è legata alla mancanza di coraggio dei club. Gattuso ha già dimostrato di non avere paura e ha portato con sé la giovane punta nerazzurra.
Ma è proprio sull’Inter che si potrebbero aprire altri dibattiti. In estate ha preferito spendere su Diouf, in un reparto già affollato, piuttosto che credere fino in fondo su Leoni, passato al Liverpool per 35 milioni. Koleosho ha dovuto emigrare in Premier League per avere una vera chance. Finché non si abbatte il muro del timore – quello che divide il coraggio dalla convenienza – il talento italiano continuerà a vivere ai margini. E un applauso invece va fatto allo Spezia che dopo aver valorizzato Esposito ha ora nelle mani Comotto: D’Angelo ha intuito le sue qualità e l’ha subito lanciato (con il Milan che osserva), perché un errore di un azzurro non pesa di più di uno straniero. E a volte l’eccessiva tutela può diventare un boomerang.

Christian Comotto
Le eccezioni Argentina e Brasile: qual è il vero problema?
Si dice spesso: “I giovani italiani non giocano”. Vero. Ma allora com’è possibile che Argentina e Brasile, dove i campioni lasciano il Paese a 18 anni, riescano comunque a produrre fuoriclasse e vincere? L’Albiceleste ha vinto il Mondiale 2022 con una squadra dove molti protagonisti non giocavano in patria da anni. Il punto, dunque, non è dove giochi, ma come vieni formato. In Sudamerica si investe sul talento vero, si rischia, si crede nell’istinto. Non si chiede a un 16enne di essere perfetto tatticamente, ma di saper saltare l’uomo, di avere visione, estro, follia. In Italia invece si tende a normalizzare il giovane, a renderlo ordinato prima ancora che creativo.
Il lavoro nelle giovanili e la paura azzurra
Le fondamenta sono tutto. In Sudamerica si respira fùtbol, in Italia si annusa diffidenza. Qui, la cultura del calcio giovanile si sta disgregando. Vince chi ha più forza fisica, non chi ha più talento. I vivai non hanno più un’identità. I ragazzi vengono allenati come robot, incasellati, programmati, frenati. Non si chiede loro di sognare, ma di non sbagliare. È la paura, di nuovo. E se il movimento italiano vuole davvero risollevarsi, deve ripartire dal basso. Serve un cambio di paradigma.
Serve tempo, fiducia, e soprattutto libertà per chi ha talento. Con figure come Gattuso nello staff della Nazionale maggiore e Baldini alla guida dell’Under 21, qualcosa potrebbe finalmente muoversi. Ma senza il supporto dei club, sarà solo un’illusione. Perché un trofeo con l’U14 è solo un soprammobile, mentre un calciatore vero è un patrimonio. E noi, oggi, stiamo scegliendo gli oggetti al posto delle persone.
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