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Il calcio dei grandi

Chelsea, in Champions con vent’anni di media: “Ma in Italia abbiamo pazienza di aspettare i giovani?”

In Inghilterra i giovani giocano e crescono, in Italia restano prigionieri della paura e dell’impazienza: il Chelsea fa scuola e a Sky si accende il dibattito

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“Gli adulti non capiscono mai niente da soli, ed è faticoso per i bambini dover spiegare sempre tutto”. C’è qualcosa di profondamente simbolico in questa frase di Saint-Exupéry ne Il Piccolo Principe: la distanza tra chi crede di sapere e chi, invece, deve ancora sbagliare per imparare. Nel calcio europeo, quella distanza si misura in anni, fiducia e opportunità. In Inghilterra, i giovani vengono lanciati nel fuoco delle grandi notti europee e il Chelsea ha fatto scuola; in Italia, restano spesso ai margini, intrappolati tra la paura di fallire e l’impazienza di un sistema che non sa aspettare.

Chelsea, baby blues da Champions

In Champions League, il Chelsea ha riscritto il manuale del coraggio. Contro l’Ajax, la squadra di Enzo Maresca ha chiuso la gara con una formazione che sembrava una dichiarazione d’intenti: tre classe 2004, tre 2006, un 2007 e persino un 2008. E non erano lì solo per fare numero. Guiu (poi sostituito), Estevão e George hanno segnato, brillato e dominato una squadra olandese esperta, sotto lo sguardo di un allenatore che non teme di affidarsi ai più giovani anche nelle notti più pesanti. E per la prima volta in assoluto tre U20 hanno segnato per la stessa squadra nella competizione Europea.

Il Chelsea ha oggi una delle squadre più giovani d’Europa, con una media di circa 24 anni. Ma, più della statistica, colpisce l’atteggiamento: fiducia, libertà e la consapevolezza che l’errore fa parte del percorso. In Premier League, i giovani non devono essere perfetti subito. Devono semplicemente essere pronti a provarci.

Il dibattito a Sky: talento o pazienza?

Il contrasto con l’Italia è diventato tema caldo anche negli studi di Sky Sport, dove un acceso confronto tra Costacurta, Capello e Padovano ha riacceso la discussione. “Ma in Italia abbiamo la pazienza di aspettare i giovani? Dirigenti e tifosi spesso non la dimostrano” ha detto Costacurta, puntando il dito contro la cultura del risultato immediato. Capello ha risposto con pragmatismo: “Ma abbiamo questa qualità qui in Italia?”. A quel punto, Padovano ha cercato una via di mezzo, ricordando che i talenti ci sono, ma manca il coraggio di lanciarli: “Qualche prospetto c’è, ma abbiamo paura di metterlo dentro”. È il solito nodo: non è solo una questione di talento, ma di fiducia. L’Italia non sembra credere fino in fondo nei propri giovani, quasi che la loro inesperienza sia una colpa e non una fase naturale della crescita.

La paura di proteggere: l’arma a doppio taglio del calcio italiano

Dietro ogni giovane che non gioca, c’è spesso un allenatore che vuole “proteggerlo”. Una protezione che, in realtà, diventa una barriera. Nel nostro calcio, l’esordio di un ragazzo è vissuto come un rischio, non come un investimento. Ogni errore viene amplificato da stampa e tifosi, ogni passo falso diventa un’etichetta. In Premier League, invece, la narrazione è diversa: il giovane che sbaglia viene visto come uno che sta imparando, non come uno che ha fallito. È questo cambio di mentalità che fa la differenza.

Finché in Italia continueremo a guardare ai giovani con sospetto e paura, resteremo un Paese che parla di futuro ma si affida sempre al passato. Forse, come direbbe un personaggio di Stranger Things, “i giovani non hanno bisogno di essere salvati dagli adulti — hanno solo bisogno che qualcuno creda in loro.”

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