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Sodinha, il talento nato tra i sacrifici: “Pagare per far giocare un figlio? È una vergogna nel calcio e nella vita”

Ai nostri microfoni l’ex calciatore Felipe Sodinha ci ha parlato della sua storia e delle sue considerazioni sul futuro del calcio italiano.

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Sodinha
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Dalla favela al grande calcio, passando per un infanzia difficile, le difficoltà dell’esordio in Italia, gli infortuni, i sogni spezzati e poi ricostruiti: Sodinha non è solo un talento fuori dagli schemi, ma anche una voce autentica in un mondo che spesso dimentica l’umanità dietro il pallone. In questa intervista, il brasiliano si racconta con sincerità. Parla di suo padre, ex calciatore mancato e camionista per necessità, del legame indissolubile con la madre, della sua crescita nelle favelas brasiliane e di un sogno che ha preso forma tra mille ostacoli. Con lo stesso spirito con cui giocava, leggero ma profondo, ci accompagna in un viaggio che va oltre il calcio: un racconto, fatto a Mondoprimavera, di sacrifici, ingiustizie, risalite e valori che non si allenano in campo, ma nella vita. Dietro al soprannome “Sodinha”, c’è una storia vera. Ed è il momento di ascoltarla.

Sodinha

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Emergere dalle favelas con un’infanzia difficile…

Tuo padre era un ex calciatore: ti ha influenzato il suo percorso?

“Mio padre non è arrivato a livelli importanti, però ha fatto la sua carriera e ancora oggi continua a giocare all’età di 67 anni. Io sono cresciuto sempre con mia mamma. Quando sono nato, mio padre lavorava come camionista,  non essendo mai riuscito a trasformare il calcio nel suo vero lavoro. A quei tempi e in quel contesto non era possibile. Quando ha ricevuto offerte importanti ha scelto di rimanere a casa per stare con mia madre e lavorare. Non è mai arrivato a livelli importanti, pur giocando in Serie C e Serie B brasiliana, quindi non poteva mantenere la famiglia con il calcio. A causa del lavoro che faceva non era quasi mai a casa ed io sono cresciuto con mia madre, lui non mi ha mai influenzato né tantomeno forzato ad entrare nel mondo del calcio e mi ha sempre lasciato libero di fare quello che mi piaceva”.

Come nasce il soprannome “Sodinha”?

“Il soprannome “Sodinha” è partito da mio padre. Lui è il vero “Soda”. Mio nonno aveva un bar e mio padre, per non rimanere da solo a casa, andava a dormire sotto il balcone del bar. Quando si svegliava di notte, invece di chiedere un bicchiere d’acqua, domandava un bicchiere di Soda. Da quel momento i suoi amici lo hanno chiamato “il Soda”. Dopo, quando io ho iniziato a giocare all’età di 4 anni, in squadra c’erano 3 o 4 bambini di nome Felipe e quando hanno scoperto che io fossi il figlio del “Soda” mi hanno chiamato “Sodinha”.

Le differenze tra calcio Europeo e calcio Sudamericano secondo Sodinha…

Secondo te, un giovane in Brasile ha più difficoltà ad emergere rispetto ad un giovane in Europa?

“Il calcio in Sudamerica è completamente diverso e te lo posso dire avendo fatto esperienza in entrambi i luoghi. In particolare, faccio riferimento al calcio brasiliano, dove sono nato e cresciuto. Questo sport in Brasile è molto libero, poiché non si impone la tattica fin da subito. Fino all’età di 15/16 anni hai la possibilità di divertirti e di giocare. Dopo, in prima squadra si lavora di più sulla tecnica, ma mai come qui in Italia. In Italia il calcio è completo e credo che sia uno dei più difficili al mondo. Quando sono arrivato all’Udinese, ho notato fin da subito una grande differenza. Non è semplice giocare qui, soprattutto se si tratta della prima esperienza. La differenza sostanziale è che in Brasile si bada molto alla tecnica, mentre in Italia ci si concentra su aspetti differenti, come la fisicità, la plasticità e la disciplina”.

Quali sono state le modalità del tuo trasferimento all’Udinese?

“Prima del trasferimento all’Udinese, io giocavo già in un campionato di serie A e in un altro campionato di serie B nella stessa squadra. Avevo circa 16 anni e mi ricordo di aver visto spesso Manuel Gerolin, che in quegli anni era in Brasile per un lavoro di scouting con l’Udinese. Quando mi ha visto giocare, ha voluto subito parlare con il mio procuratore e voleva che si mandasse un video delle mie giocate al dirigente sportivo Pozzo. Nel momento in cui il video gli è arrivato, Pozzo ha subito comunicato di acquistarmi. In quel momento ho provato un’emozione grandissima. Quando ho comunicato alla mia famiglia del trasferimento, tutti erano felicissimi, perché sapevano che quell’evento mi avrebbe cambiato la vita. Sono nato nelle favelas e so cos’è la povertà. Nella serie A brasiliana guadagnavo dai 50 ai 70 € al mese e non potevo aiutare la mia famiglia”.

Hai avuto difficoltà al tuo arrivo in Italia? 

Nonostante ciò il mio arrivo in Italia non è stato facile. All’inizio ero da solo, non conoscevo la lingua e per poter parlare 5 minuti con la mia famiglia dovevo comprare una scheda, digitare 20 o 30 numeri di telefono. Sapevo che quello fosse il mio sogno e quindi dovevo fare un altro sacrificio, dopo tutti quelli fatti da bambino”.

Come hai vissuto gli anni in prestito?

“Per me è stata un’esperienza importante. A Bari abbiamo vinto il campionato di serie B con Antonio conte come allenatore. Con la Paganese ho vissuto un’esperienza diversa, con Eziolino Capuano in panchina. A Portogruaro invece è arrivato il primo infortunio al ginocchio e in quel caso avevo Alessandro Calori come mister. Tutti e tre i prestiti, però mi hanno fatto crescere molto e hanno fatto sì che imparassi molte cose. In generale, penso che giocare con i più grandi c’è un aspetto che ti fa crescere subito, non solo dal punto di vista calcistico ma anche umano. Avrei comunque potuto decidere di rimanere a Udine, ma insieme alla società e ai miei procuratori abbiamo preso questa scelta per il mio bene”.

Perché hai deciso di ritornare in Brasile?

“Sono tornato in Brasile per vari motivi. Uno di questi è sicuramente la mancanza degli affetti e dell’amicizia. Quando mi sono fatto male al ginocchio, sono rimasto da solo. Se sei un calciatore è facile trovare amici, ma spesso queste persone sono con te solo per la posizione in cui ti trovi, per questo devi stare attento. In quel momento ho capito che la cosa più importante per me era la famiglia e quindi ho iniziato a ripensare alla mia vita. Solo allora ho ritrovato la serenità e con tranquillità sono tornato in forma ho ripreso a giocare. Solo allora ho deciso di ritornare in Italia”.

Sull’inchiesta delle Iene…

Secondo te in Italia c’è meritocrazia?

“Per me è una cosa vergognosa. Una vicenda che mi fa schifo. Anch’io adesso da due anni ho aperto un’agenzia di calcio e gestisco quasi 50 giocatori. Proprio per questo ti dico che se un genitore si comporta in una certa maniera non ama veramente suo figlio. Quando ho visto l’inchiesta, ho provato tristezza e rabbia allo stesso tempo. Non si può pagare per far giocare qualcuno. In questo modo, non si sbaglia solo nel mondo del calcio ma anche nella vita. Provo ancora più ribrezzo per i direttori delle società coinvolte. Queste persone devono lasciare il calcio e non tornare mai più. Io ho fatto sacrifici nella mia vita fin da quando ero piccolo per diventare calciatore.

Credo fermamente che impegnandosi e mostrando determinazione si possa diventare calciatore. Non devi mollare mai se è davvero il tuo sogno. Non è facile, ma neanche impossibile. Ho ricevuto tanti no nella mia vita per vari motivi, ma anche questo mi ha dato la forza di continuare ed andare avanti, proprio per dimostrare a tutti che ce l’avrei fatta. Anche quando giocavo io da bambino, i figli dei genitori che facevano da sponsor alle società dovevano sempre giocare. In quei casi tutti gli altri venivano penalizzati in maniera ingiusta. Anche questo però mi ha fatto crescere”.

L’opinione di Sodinha sui giovani in Italia…

Perché i giovani non riescono ad emergere in Italia?

“I talenti in Italia nascono tutti i giorni. L’importante è saper allenare e dare le giuste direttive ai bambini. Fino ai 13 anni, i bambini devono divertirsi e non pensare solamente alla tattica. Gli osservatori inoltre, devono guardare prima di tutto la tecnica individuale di un giocatore e poi la struttura fisica. Questo è un altro motivo per cui il calcio italiano ha perso così tanto valore. In parte, la colpa è anche della società, perché vogliono ragazzi diversi rispetto a quelli di una volta”.

Le società dovrebbero lasciar giocare di più i loro talenti?

“Dipende. Penso che un ragazzo di 17 anni non sia pronto per giocare in prima squadra, ma in ogni caso credo che l’allenatore debba dargli la possibilità di sbagliare e prendere ritmo. Io a 15 anni giocavo già in serie A e in serie B brasiliana, quindi sicuramente sbagliavo e avevo un atteggiamento da ragazzino. Tutto ciò però mi ha aiutato a crescere e quindi a diciott’anni ero già un giovane-vecchio. Per i giovani è molto importante raggiungere lo spogliatoio dei più grandi, perché solo in questo modo maturi un’esperienza importante. Ad oggi è difficile trovare un giovane talento pronto, magari ce ne sarà uno su un milione”.

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