Primavera 1Il calcio dei grandi
Fabregas e le malattie dell’Italia: il rapporto tra Primavera e Serie A, l’identità persa e i falsi miti
Fabregas denuncia i limiti del sistema giovanile italiano: paura di rischiare, identità smarrita e un divario crescente con l’Europa
“Il futuro non è scritto”, diceva John Connor in Terminator 2. Ma nel calcio italiano, più che un destino da riscrivere, sembra di assistere a un loop narrativo che ricorda Ricomincio da capo: stessi errori, stessi timori, stessa incapacità di rompere gli schemi. Ed è proprio in questo scenario che le parole di Cesc Fabregas, raccolte da La Provincia, risuonano come un monito e una diagnosi severa. L’allenatore del Como ha toccato uno dei nervi più scoperti del nostro sistema: il rapporto malato tra Primavera e Serie A.
Fabregas: “In Italia si ha paura di accelerare i tempi”
Fabregas non ha usato troppo giri di parole: “In Spagna c’è una vera ossessione nel portare giocatori del settore giovanile in prima squadra… In Italia succede meno”. L’allenatore ha raccontato un aneddoto rivelatore: quando prese in mano la Primavera del Como trovò una squadra sbilanciata, costruita senza logica. La soluzione? Promuovere subito due ragazzi dall’Under 16, perché “valevano”. La reazione? Scalpore. In Italia saltare una categoria è visto quasi come un sacrilegio.
È qui che il calcio italiano mostra la sua incapacità più pericolosa: quella di adattarsi al mondo che cambia. Il mantra “per crescere bisogna rispettare i gradi” è diventato una scorciatoia culturale, una scusa rassicurante che però non risponde più alle esigenze dell’alta formazione sportiva. Mentre altrove i giovani vengono sottoposti presto a stimoli forti e livelli competitivi superiori, da noi si preferisce il percorso lineare, lento, anestetizzato. Ma se un ragazzo domina tra i suoi pari, che senso ha lasciarlo lì a girare a vuoto?

Fabregas
L’Italia senza “seconde squadre”: un ponte che manca (o che si usa male)
Il confronto con la Spagna diventa impietoso soprattutto guardando la piramide competitiva. La presenza massiccia delle seconde squadre – vere squadre, iscritte ai campionati professionistici – permette ai talenti di misurarsi subito con avversari più forti, più esperti, più completi. Da noi le seconde squadre sono solo quattro in Serie C (Juventus, Atalanta, Milan, Inter), e spesso vissute più come un esperimento che come un asset strategico.
Eppure, quando il sistema funziona, i risultati sono tangibili: basta guardare Yildiz, lanciato proprio dal percorso Juventus Next Gen. Ma questo ponte può trasformarsi in un vicolo cieco se usato come parcheggio o strumento di comodo. In Spagna, invece, il percorso è chiaro, identitario, costante. Non è un caso che le grandi hanno sempre continuato a sfornare talenti riconoscibili a prima vista: tecnica, lettura, personalità. La Masia del Barcellona ne è il simbolo più luminoso: nel dopo-Messi, da quel vivaio sono usciti Pedri, Cubarsí, Yamal, tre cardini della nuova era blaugrana.

Italia, identità smarrita: senza tecnica si crescono atleti, non calciatori
Il vero punto dolente, però, è culturale. L’Italia ha smarrito l’identità che per anni l’ha resa unica: creatività, tecnica, imprevedibilità. Oggi non nascono più Totti o Del Piero, non solo per un presunto calo di talento, ma perché il talento viene educato in modo diverso. Troppo diverso. Per vincere trofei giovanili dal valore di un soprammobile, molti allenatori selezionano profili “sicuri”: ragazzi alti, strutturati, dominanti fisicamente. Ma la fisicità è un valore solo se si appoggia su un bagaglio tecnico solido. I muscoli con la tecnica migliorano un calciatore; i muscoli senza tecnica ne fanno solo un atleta, mai un protagonista.
Se a tutto questo si aggiunge la mancanza di coraggio dei club e la paura di bruciare i giovani – quando spesso è molto più pericoloso farli marcire –, il risultato è un movimento che perde colpi e identità allo stesso tempo. Un Paese che ha costruito la sua gloria sulla qualità e sulla fantasia oggi sembra aver dimenticato la propria grammatica calcistica. L’Italia ha bisogno di riallineare la sua narrazione, di tornare a credere nei giovani non come eccezioni da maneggiare con cura, ma come risorse da valorizzare senza timori reverenziali. Perché il futuro non è scritto, è vero. Ma per non risvegliarsi nel solito giorno del loop occorre cambiare adesso. E Fabregas, da osservatore globale, ci ha appena ricordato che il tempo, nel calcio di oggi, non aspetta nessuno.
Continua a leggere le notizie di Mondo Primavera e segui la nostra pagina Facebook
