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Calcio giovanile e sostenibilità: Zola e la vera sfida della Serie C
Il calcio giovanile può salvare la Lega Pro? Analisi su sostenibilità, settori giovanili e la vera sfida della Serie C.

Il calcio giovanile può salvare la Lega Pro? Analisi su sostenibilità, settori giovanili e la vera sfida della Serie C
“Il calcio non è solo un fenomeno sportivo… è un fenomeno sociale importante all’interno di una nazione”. Le parole di Gianfranco Zola, pronunciate durante la presentazione di un torneo giovanile in Sardegna, risuonano forti e chiare, fotografando con lucidità un concetto che troppo spesso sfugge a dirigenti, istituzioni e talvolta anche ai tifosi: il calcio ha una responsabilità educativa e sociale, che va ben oltre i 90 minuti di gioco.
Zola, simbolo di un calcio romantico e al tempo stesso moderno, richiama l’attenzione sul valore dei settori giovanili. Ma dalle sue parole si può partire per allargare il ragionamento a un interrogativo che da anni attanaglia il sistema calcio italiano: ha senso mantenere una Serie C con 60 squadre, in tre gironi, in un panorama costellato da fallimenti, penalizzazioni, stipendi non pagati e società costrette a ripartire dalla D o addirittura dai dilettanti?

Gianfranco Zola Serie C
Serie C, il nodo della sostenibilità
La Serie C è da sempre un campionato affascinante, ricco di piazze storiche, rivalità accese e un pubblico fedele. Tuttavia, è anche una competizione che da tempo vive una crisi strutturale. Negli ultimi dieci anni, si contano decine di club spariti o retrocessi per ragioni economiche. La lista è lunga: Catania, Siena, Sambenedettese, Reggina o in ultimo Turris e Taranto, solo per citarne alcuni.
Il problema è chiaro: gestire una squadra professionistica costa. Viaggi, stipendi, infrastrutture, settore giovanile, marketing e comunicazione. E in Serie C, dove i diritti televisivi sono esigui e le sponsorizzazioni spesso locali, la sostenibilità economica diventa un’impresa titanica, specie per chi non ha alle spalle un imprenditore solido o un progetto sportivo pluriennale.
L’attuale assetto a 60 squadre, nato anche per garantire un maggiore equilibrio territoriale e per offrire un’opportunità a realtà minori, sembra ormai un vestito troppo largo. L’impressione è che il sistema stia cercando di tenere in piedi una struttura troppo grande, senza le fondamenta necessarie.
Perché no un campionato semi-professionistico?
E allora perché non ridurre il numero delle squadre in Serie C e istituire un campionato intermedio? Una sorta di Serie C2 semi-professionistica tra la C e la D. Un modello che rievocherebbe i fasti degli anni ’90, quando le squadre erano divise in Serie C1 e C2, ma con un approccio diverso: meno costi, regole flessibili, maggiore attenzione alla formazione dei giovani.
Un campionato “ponte”, insomma, che permetta ai club in difficoltà economica di continuare a esistere e crescere, senza essere costretti a rincorrere un professionismo troppo oneroso. Un campionato in cui valorizzare i vivai, magari incentivando l’impiego di giocatori under 23 con agevolazioni fiscali o premi federali.
In questo scenario, il settore giovanile tornerebbe ad essere il fulcro del progetto sportivo. Le parole di Zola vanno proprio in questa direzione: creare occasioni per la crescita dei ragazzi significa anche offrire loro strutture, tecnici preparati, percorsi scolastici compatibili con l’attività agonistica. Significa dare un futuro al calcio italiano.

Juve Next Gen
Il modello vincente? Guardiamo altrove
Non serve guardare troppo lontano per trovare esempi virtuosi. In Germania, il sistema delle licenze obbliga le società, anche in terza divisione, a investire sul settore giovanile. In Olanda e Belgio, molte squadre B giocano nei campionati inferiori, dando continuità al percorso di crescita dei giovani. In Francia, i centri federali formano calciatori e uomini, con un’attenzione particolare all’istruzione.
L’Italia, invece, ha spesso confuso il talento con l’improvvisazione. Troppo spesso i vivai sono visti come un obbligo, e non come un’opportunità. Le seconde squadre, dopo il timido tentativo della Juventus Next Gen, sono rimaste un’eccezione, soltanto Atalanta e Milan Futuro (pure retrocessa) hanno seguita la strada e l’Inter è pronta fare il suo esordio la prossima stagione. Eppure, in un contesto in cui l’investimento è l’unico antidoto alla crisi, è proprio lì che bisogna guardare.
Per concludere…
Non si tratta di eliminare squadre. Si tratta di pensare a un sistema più sostenibile, che metta al centro il merito, la programmazione e il territorio. Ridurre le squadre in Lega Pro non significa mortificare il calcio italiano, ma proteggerlo. Significa evitare che ogni estate diventi un bollettino di guerra tra fideiussioni non presentate, ripescaggi e ricorsi al TAR.
Il calcio italiano deve avere il coraggio di riformarsi, di costruire dal basso, di fare sistema. E deve ripartire dai ragazzi, dai settori giovanili, dal sogno di un ragazzino che tira calci a un pallone su un campo polveroso della Sardegna o di qualsiasi altra zona d’Italia. Perché, come diceva Zola, “dobbiamo responsabilizzarci affinché si creino le occasioni per la crescita dei ragazzi”. Il futuro del calcio non passa solo dai grandi stadi, ma anche dai campetti di periferia. E ogni decisione che prenderemo oggi, dovrà avere come bussola proprio quel futuro.
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