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“Cambiare mentalità nei vivai e tre italiani obbligatori in campo in A”: Capello lancia l’appello

Fabio Capello denuncia la crisi del talento in Italia e propone: “Tre italiani titolari obbligatori in Serie A”. Ecco cosa significa.

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Fabio Capello
Fabio Capello

Fabio Capello denuncia la crisi del talento in Italia e propone: “Tre italiani titolari obbligatori in Serie A”. Ecco cosa significa

Nel calcio italiano c’è un’emergenza silenziosa, ma non per questo meno allarmante. È la crisi del talento giovanile, una crisi che Fabio Capello, voce autorevole del nostro calcio, ha messo sotto i riflettori con parole nette, che risuonano come un appello accorato ma anche come un atto d’accusa: “Cambiare mentalità nei vivai, perché la povertà di talento è qualcosa di preoccupante e non può essere solo un problema generazionale, ma di metodo”.

Non è la prima volta che si punta il dito contro il sistema, ma quando a farlo è uno come Capello – ex commissario tecnico dell’Inghilterra, allenatore vincente con Milan, Roma, Juventus e Real Madrid – è impossibile far finta di nulla. Le sue parole a La Gazzetta dello Sport raccontano un disagio profondo, radicato, che ha origine non solo nella carenza di fenomeni, ma soprattutto in un modello formativo che ha smarrito la propria identità.

Fabio Capello

Fabio Capello

Un problema sistemico

La crisi dei vivai italiani non è una scoperta recente. Da anni ormai si parla di un movimento giovanile che fatica a produrre calciatori pronti per l’élite. Le cause sono molteplici: un eccesso di tatticismo nelle categorie giovanili, l’assenza di un’idea di gioco propositiva, la pressione sui risultati fin da piccoli, la scarsa attenzione al talento a favore della fisicità. Ma Capello va oltre l’analisi tecnica e pone il problema sul piano culturale: è una questione di mentalità.

E ha ragione. Nei principali paesi europei – dalla Spagna alla Germania, passando per Francia e Inghilterra – da anni si investe nella crescita globale del giovane calciatore. Si lavora sulla tecnica individuale, sulla creatività, sul coraggio di rischiare. In Italia, invece, si tende ancora a formare il “giocatore utile”, disciplinato tatticamente ma povero di intuizione. La paura di sbagliare uccide il talento.

Il coraggio di farli giocare

Ma Capello non si ferma alla diagnosi. Propone una soluzione drastica, forse controversa, ma sicuramente efficace: “Fosse per me, obbligherei le squadre di Serie A a schierare almeno tre italiani nell’undici titolare in tutte le partite”. Una proposta che farà storcere il naso ai puristi del libero mercato, ma che ha un fondamento chiaro: se i giovani non giocano, non crescono. Ed è proprio questo il cuore del problema. I vivai, pur tra mille difficoltà, qualcosa producono. Ma poi i ragazzi restano intrappolati nelle seconde squadre, nelle panchine o in prestiti infiniti in Serie C. Non c’è fiducia, non c’è spazio, non c’è progettualità.

Nel 2006, quando l’Italia alzava la Coppa del Mondo a Berlino, i titolari della Nazionale giocavano quasi tutti da protagonisti nei club di Serie A. Oggi, la Nazionale di Spalletti fatica a trovare alternative di qualità in certi ruoli, e deve affidarsi ai calciatori “oriundi” o a giocatori con pochissima esperienza internazionale. È un paradosso: abbiamo una delle leghe più ricche d’Europa, ma non riusciamo a far emergere i nostri talenti.

Francesco Camarda

Francesco Camarda

Il confronto con l’estero

L’obbligo di schierare calciatori locali non è una novità assoluta. In altri contesti, come in MLS o nei campionati asiatici, esistono già delle quote minime per giocatori nazionali. Ma anche nei grandi campionati europei, sebbene non ci siano imposizioni formali, c’è una valorizzazione evidente del talento autoctono. Il Manchester City è un esempio: può contare su giocatori come Phil Foden o Rico Lewis, cresciuti in casa e lanciati da Pep Guardiola in contesti di altissimo livello.

In Spagna, il Barcellona ha fatto della “cantera” un modello, producendo campioni come Gavi, Pedri e Lamine Yamal. In Francia, i centri federali sono fucine di talento puro, che poi fiorisce anche altrove. E l’Italia? Si aggrappa ancora ai ricordi di Totti, Del Piero, Pirlo e De Rossi, senza riuscire a costruire i loro eredi.

Un cambio di paradigma

Serve un’inversione di rotta. E non solo nei vivai, ma anche nella governance del calcio italiano. La proposta di Capello può sembrare estrema, ma è una provocazione utile. Costringere i club a puntare sui giovani italiani significherebbe cambiare il paradigma, premiare la formazione interna, costringere i tecnici a rischiare di più. Non basta più vincere le classifiche dei “minuti giocati dai giovani” se poi quegli stessi giovani non mettono piede in Serie A.

Yamal Barcellona

Yamal Barcellona

In fondo, l’obiettivo è uno solo: restituire al calcio italiano la sua identità, la sua capacità di produrre talenti in grado di incidere anche a livello internazionale. Questo non si può ottenere solo con le parole o con i ricordi, ma con riforme strutturali, investimenti mirati e – soprattutto – con il coraggio di credere nei ragazzi. Capello ha lanciato il sasso nello stagno. Ora tocca agli addetti ai lavori, ai dirigenti, agli allenatori raccogliere la sfida. Perché il talento esiste, ma ha bisogno di spazi, di fiducia, di tempo. E anche di un po’ di follia. Quella che in Italia, da troppo tempo, manca.

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