Il calcio dei grandi
Comotto segna con il Milan e riaccende una sterile polemica: i “figli d’arte” sono avvantaggiati nel calcio?
Christian Comotto segna con il Milan, e sui social si rialimenta il fuoco della polemica sui figli d’arte. Chi ha ragione?

Christian Comotto e le critiche social
Come per tutti gli eventi che segnano un “prima” e un “dopo”, anche nel caso di Christian Comotto il gol segnato al Perth Glory è spartiacque. Il centrocampista calcia un rigore per nulla banale, un tocco sotto che dimostra tonnellate di personalità e leadership. Eppure, l’attenzione dell’opinione pubblica, in particolare sui social, sposta la sua attenzione su un particolare che stava rimanendo (anche giustamente) ai margini. Il classe 2008 è infatti un figlio d’arte: suo padre Gianluca ha giocato in Serie A per molti anni, trovando il suo periodo migliore alla Fiorentina. Ma è davvero un dettaglio determinante? Essere associato ad un cognome già noto è garanzia di successo o tutto questo è un falso mito?
Da Maldini a Totti: il paradosso di portare un cognome importante
L’importanza del tema è fatalmente alta, visto che ancora nel 2025 si va fin troppo leggeri sull’argomento. In molti sui social associano in maniera tremendamente superficiale il fatto di avere un determinato cognome con il successo e la scalata nel calcio. Ma l’equazione è di così semplice lettura? La risposta secca è: “Assolutamente no”. Un grande assist ce lo fornisce la dinastia Maldini: Cesare ha lasciato tracce indelebili nel Milan, ma suo figlio Paolo lo ha addirittura superato per risultati, status e anche considerazione a livello internazionale. Al contrario, Daniel ha provato a ripercorrere i passi di suo padre in rossonero, non trovando però terreno fertile per imporsi e venendo ceduto forse troppo in fretta, probabilmente anche per il peso di quel “Maldini” dietro la schiena.
Un cognome non fa un giocatore, e ce lo dimostra il caso Cristian Totti: il classe 2005, dopo un periodo in cui ha faticato molto a ritagliarsi il suo spazio all’Olbia in Serie D, ha deciso di ritirarsi dal calcio giocato a 19 anni. Al contrario però, esistono anche figli d’arte che riescono a sganciarsi dal peso specifico del proprio cognome, facendo parlare soltanto il talento: Francisco Conceicao, fresco di riscatto da parte della Juventus, i fratelli Marcus e Khephren Thuram; o ancora Ruben Van Bommel, che sta cercando di seguire le orme di suo padre in Olanda e promette grandi cose. Anche Justin Kluivert ha trovato la sua dimensione al Bournemouth dopo una prima parentesi di carriera in cui veniva schiacciato dai continui paragoni con Patrick, leggendario bomber olandese.
“Figlio d’arte” è sinonimo di successo?
Come spesso accade, la verità è nel mezzo, in quelle sfumature che quando ci si esprime ragionando per estremi vengono sempre accantonate. Perché per ogni Paolo Maldini, c’è sempre un Enzo Zidane a rappresentare l’altro lato della medaglia. Quello cioè di un giocatore che per partito preso è considerato inadatto per certi palcoscenici, spesso solo per un cortocircuito che associa inevitabilmente il figlio d’arte con il padre.
Comotto e il futuro al Milan
Torniamo sulla “case history” di partenza, Christian Comotto. Il 17enne sta cercando di crearsi quello spiraglio che gli permetta di emergere, dimostrando anche molta consapevolezza nelle proprie qualità. Il rigore calciato ieri non è soltanto il primo gol con il Milan, ma rappresenta un colpo verso la sterile retorica del: “Se sei arrivato è perché porti quel cognome”. Il classe 2008 però non ha ancora blindato la sua permanenza in rossonero: è probabile infatti una sua partenza in prestito secco verso lo Spezia in Serie B. Un’occasione in più per smentire un concetto che devitalizza la discussione calcistica, rendendola soltanto una serie di slogan troppo facili e vuoti.
Luca Ottaviano
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