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Il calcio dei grandi

“Italiano ma non per la legge”: il paradosso di Ahanor e l’ipocrisia dello ius soli

Nato ad Aversa, cresciuto a Genova, ma senza cittadinanza: il giovane talento Ahanor non può giocare con l’Italia. Un caso che evidenzia l’assurdità del sistema.

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Ahanor, Atalanta, Italia

Nato in Italia, ma non italiano: il caso Ahanor

Se oggi in una scuola elementare chiedessimo: “Chi considerate italiano?”, la risposta sarebbe unanime, pura, immediata: “Chi nasce in Italia”. I bambini non conoscono cavilli legislativi, non distinguono tra cognomi, accenti o certificati di cittadinanza. La loro è una verità limpida, non ancora deformata dall’ipocrisia del dibattito politico o dall’ignoranza delle ideologie.

Ma è proprio quella sincerità che si scontra con la realtà di un Paese che rifiuta di guardarsi allo specchio. Perché oggi in Italia non basta nascere qui per essere italiani davvero. Non basta crescere tra le sue scuole, parlare la sua lingua, tifare per i suoi colori. Serve altro: una burocrazia lenta, spesso cieca, che impone ai figli degli immigrati di aspettare fino ai 18 anni per sperare, forse, di ottenere la cittadinanza. E anche in quel caso, a determinate condizioni.

Ahanor Atalanta

Ahanor Atalanta

Il caso Ahanor: talento italiano, cittadino invisibile

È la storia di Ahanor, nato ad Aversa, in provincia di Caserta, nel 2008. Cresciuto a Genova fin da piccolissimo, si è formato come ragazzo e come calciatore in Italia. Ha frequentato le scuole italiane, ha vissuto secondo i codici culturali italiani, sogna di giocare per la Nazionale. Ma non può. Non ha la cittadinanza, perché i suoi genitori sono nigeriani. E questo basta allo Stato italiano per cancellare qualsiasi appartenenza. Il ct Gattuso non può convocarlo. Nessuna Nazionale giovanile l’ha mai potuto fare. Ahanor non ha il passaporto italiano, quindi non esiste nel mondo del calcio internazionale.

Nel frattempo, la Nigeria osserva. E un giorno potrebbe convocarlo, offrendogli ciò che l’Italia gli ha negato: una maglia, un’identità sportiva, un posto nel mondo. E noi potremmo ritrovarci a tifare contro un ragazzo che avrebbe potuto essere nostro, se solo fossimo stati capaci di riconoscerlo come tale.

Ius soli, una battaglia di civiltà che l’Italia continua a rinviare

Dietro tutto questo non c’è solo una questione sportiva. C’è una ferita civile profonda. Un sistema che accoglie gli oriundi con antenati italiani vissuti a migliaia di chilometri di distanza, spesso senza alcun legame reale con il Paese, mentre nega la cittadinanza a chi qui è nato e cresciuto.

Lo ius soli, in Italia, esiste ma è marginale, condizionato da burocrazie complesse e vincoli assurdi. È una cittadinanza concessa con il contagocce, non automatica, né garantita. È il frutto di una politica incapace di guardare avanti, inchiodata a logiche elettorali, slogan nazionalisti e retoriche della paura. Ma la domanda resta: che tipo di Paese vogliamo essere? Uno che continua a respingere i suoi figli perché hanno genitori stranieri? O uno che riconosce che l’italianità è fatta di cultura, di vita vissuta, di appartenenza reale, non solo di sangue? A capirlo, oggi, sono solo i bambini. E forse è proprio da loro che dovremmo imparare.

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