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La nascita della musica nei videogiochi

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Ragazzi che giocano con videogame
Ragazzi che giocano con videogame (© Depositphotos)

Alla fine degli anni ’70, i videogiochi stavano appena muovendo i loro primi passi come medium culturale, e la musica non era che un esperimento rudimentale. Eppure, anche quei pochi suoni sintetici avevano già la capacità di imprimersi nella mente dei giocatori. Nel 1978, Tomohiro Nishikado rivoluzionò l’esperienza con Space Invaders: quattro semplici note ripetute all’infinito, che aumentavano di velocità man mano che gli alieni scendevano verso la base del giocatore. Non era una vera e propria melodia, ma un battito cardiaco digitale, capace di trasmettere tensione e urgenza. Quella minimalista, nata più da limiti tecnologici che da intenzioni artistiche, si trasformò in un linguaggio emotivo scelta nuova, aprendo la strada a un modo diverso di vivere il videogioco: non più solo con gli occhi e le mani, ma anche con le orecchie e il cuore.

Pochi anni dopo, un giovane compositore di nome Koji Kondo avrebbe cambiato sempre la percezione della musica nei videogiochi. Assunto da Nintendo nel 1984 come primo musicista ufficiale dell’azienda, nel giro di pochi mesi creò le colonne sonore di Super Mario Bros. e The Legend of Zelda. Nel primo caso, regalò al mondo un tema allegro e saltellante, fatto di brevi loop che accompagnavano i movimenti frenetici di Mario e che ancora oggi vengono fischiettati da milioni di persone. Nel secondo, componi in una sola giornata la melodia epica e misteriosa che avrebbe segnato l’inizio di un’avventura senza tempo. Kondo mostrerà che la musica non era più un semplice accompagnamento, ma un personaggio invisibile, in grado di guidare le emozioni del giocatore.

Questa fase pionieristica dimostrò come poche note sarebbero diventate eterne. I primi esperimenti non furono solo sfondi sonori, ma scintille capaci di accendere immaginazione, nostalgia e passione. Era l’alba di un’arte nuova: la musica dei videogiochi.

Melodie che diventano leggende

Con l’arrivo della metà degli anni ’80, la musica nei videogiochi non era più soltanto un sottofondo: diventava identità, memoria collettiva, leggenda. Ogni titolo cercava di scolpire nel cuore dei giocatori un tema riconoscibile, capace di evocare in pochi secondi interi mondi immaginari. In questo periodo, compositori visionari trasformarono i limiti tecnici delle macchine dell’epoca in un linguaggio creativo nuovo, dove poche note di sintetizzatore riuscirono a sprigionare emozioni universali.

Uno dei pionieri di questa rivoluzione fu Hirokazu “Hip” Tanaka, che nel 1986 firmò la colonna sonora di Metroid. Lì la musica non era solo accompagnamento: era atmosfera. Silenzi improvvisi, suoni metallici e ritmiche minimali trasportavano il giocatore in un universo ostile e solitario, creando un senso di isolamento mai sperimentato prima. Fu un capolavoro di sottrazione, dove anche l’assenza di suono diventava parte integrante della narrazione.

Allo stesso tempo, dall’altra parte d’Europa, l’irlandese Martin Galway stregava i possessori di Commodore 64 con le sue sonorità chiptune. Titoli come Wizball o Rambo: First Blood Part II mostravano quanto un semplice chip sonoro potesse avvicinarsi a rock ed elettronica, trasformando un computer casalingo in un piccolo sintetizzatore. Erano musiche che non si limitavano a seguire il gioco: diventavano esse stesse attrazione, con brani che i giocatori ascoltavano anche al di fuori delle sessioni ludiche.

A portare la musica videoludica verso nuove vette emotive ci ha pensato poi Michiru Yamane, la compositrice che con Castlevania: Bloodlines (1994) seppe unire la potenza drammatica della musica classica con l’energia del rock. Le sue note gotiche, eleganti e solenni restituivano perfettamente l’atmosfera vampirica della serie, facendo risuonare nei corridoi digitali del castello di Dracula un’eco di organi e archi che restava nella memoria.

E infine, tra i giganti di quest’epoca, emerge Nobuo Uematsu, il poeta dei videogiochi. Con le colonne sonore di Final Fantasy, e in particolare con l’indimenticabile One-Winged Angel di Final Fantasy VII, ha portato il medium a un livello mai visto: quello dei grandi concerti sinfonici. Brani complessi, carichi di pathos, che trasformavano un combattimento su schermo in un’esperienza teatrale. Per molti giocatori, le sue melodie divennero la colonna sonora della propria adolescenza, e ancora oggi riecheggiano come inni di un’epoca irripetibile.

In questa fase la musica dei videogiochi smise di essere solo suono: diventò leggenda. Ogni compositore, con il suo stile, scolpì una parte di storia che ancora oggi viene ricordata, remixata, e celebrata in tutto il mondo.

La musica che racconta emozioni

Se negli anni precedenti le melodie erano diventate icone, negli anni ’90 e 2000 la musica nei videogiochi si trasformò in un linguaggio narrativo capace di dare voce a emozioni profonde. Yasunori Mitsuda, con Chrono Trigger, compone brani che sembravano raccontare storie parallele al gioco, intrecciando influenze celtiche, giapponesi e classiche. Le sue note riuscirono a commutare i giocatori come una colonna sonora cinematografica.

In un registro completamente diverso, Akira Yamaoka con Silent Hill creò un’atmosfera disturbante e ipnotica: suoni industriali, dissonanze e ritmi spezzati che instillavano inquietudine continua, trasformando il silenzio stesso in una forma di tensione.

Parallelamente, negli anni 2000, Marty O’Donnell e Michael Salvatori firmarono la musica di Halo, dimostrando come un unico tema, riarrangiato in mille sfumature, poteva diventare il cuore pulsante di un’intera saga. Il loro approccio dimostrò che la musica videoludica poteva essere tanto epica e memorabile quanto quella di un kolossal cinematografico.

E nel 2012, Austin Wintory con Journey riportò la musica a un livello intimo e universale: un concerto per violoncello e strumenti eterei che accompagnava il giocatore in un viaggio emotivo senza parole, dove ogni nota sembrava riflettere la propria interiorità. È la stessa logica che guida anche altri ambiti digitali contemporanei, dove esperienze personalizzate, dall’intrattenimento ai servizi online, vengono proposte con la stessa cura emotiva dei videogiochi: come avviene con i nuovi provider 2025, capaci di offrire connessioni e contenuti sempre più immersivi e su misura.

Dai videogiochi ai palchi del mondo

Negli ultimi due decenni la musica dei videogiochi ha oltrepassato i confini dello schermo, conquistando teatri, premi internazionali e riconoscimenti culturali. Nel 2005, Christopher Tin con Baba Yetu per Civilization IV portò per la prima volta una colonna sonora videoludica a vincere un Grammy, dimostrando che questo linguaggio meritava di stare accanto alla musica “alta”. Allo stesso tempo, autrici come Yoko Shimomura, con Kingdom Hearts, e Winifred Phillips, con Assassin’s Creed III: Liberation, hanno mostrato la forza di uno sguardo femminile capace di intrecciare stili e culture diverse. Fino ad arrivare a Wilbert Roget II, che con Mortal Kombat 11 ha saputo fondere influenze mediorientali, asiatiche e nordiche in un mosaico musicale globale.

Oggi, i concerti dedicati alle colonne sonore dei videogiochi riempiono arene e sale sinfoniche: la musica nata per accompagnare pixel e poligoni è diventata patrimonio culturale condiviso. E se un tempo bastavano quattro note per creare tensione, ora intere orchestre danno voce ai nostri ricordi digitali. La musica nei videogiochi non è più solo un accessorio: è una forma d’arte che ci accompagna, ci emoziona e continua a scrivere la sua storia, partita dopo partita.

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