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“Lo sportivo è un essere umano prima che un atleta”: come il benessere mentale incide sullo sport professionistico
Dalla difficoltà di riconoscere la depressione alle pressioni familiari, fino all’importanza di un supporto psicologico costante: un viaggio nelle fragilità degli atleti con Guido Bresolin, psicologo dello sport con oltre 15 anni di esperienza al fianco di professionisti di livello internazionale

Negli ultimi anni, la salute mentale degli atleti è finalmente uscita dall’ombra, diventando tema di dibattito pubblico e mediatico. Sempre più sportivi scelgono di rompere il silenzio, raccontando le proprie fragilità e le lotte interiori che si celano dietro la performance. Álvaro Morata ha recentemente confessato di aver avuto pensieri autodistruttivi al punto da considerare di simulare un infortunio pur di non scendere in campo. Robin Gosens ha parlato apertamente della depressione vissuta durante la sua esperienza all’Atalanta, un periodo segnato da insonnia e instabilità emotiva.
Josip Iličić ha attraversato un crollo psicologico durante la pandemia, che lo ha costretto a prendersi una lunga pausa dal calcio. E proprio pochi giorni fa, anche Alexander Zverev, tennista tedesco, ha ammesso il profondo vuoto emotivo provato dopo l’eliminazione da Wimbledon, un senso di smarrimento che va ben oltre la sconfitta sportiva.

Alvaro Morata, ex Milan
Questi esempi ci ricordano una verità fondamentale: lo sportivo è un essere umano prima che un atleta. Dietro ogni prestazione, ogni medaglia o gol decisivo, si nasconde una complessità emotiva che merita ascolto, comprensione e supporto. Ne abbiamo parlato con Guido Bresolin, psicologo dello sport con oltre quindici anni di esperienza accanto ad atleti professionisti. Un’intervista intensa, che ci guida oltre il campo da gioco per esplorare il ruolo cruciale della salute mentale nello sport di alto livello.
Chi è lo psicologo dello sport?
Svolgo un ruolo preciso: divento quella “stanza” dove l’atleta può entrare e lasciarsi andare. Un po’ come un confessionale — passami il paragone alla Grande Fratello — dove tutto quello che dice resta lì.
Io ascolto in maniera attiva, offro una visione, ma non do soluzioni. Il mio compito è allenare l’atleta a trovare da solo la strada, fargli da specchio, aiutarlo ad arrivare dove vuole. E soprattutto: non giudico. Mai.
Spesso un atleta ha paura di mostrarsi vulnerabile con la famiglia, con il partner, con i figli. Vuole apparire forte, sempre. Ma con me non ha bisogno di maschere. Divento per lui quel luogo in cui potersi aprire, dove ogni pensiero ha valore, anche il più scomodo. È lì che nasce il vero cambiamento.
Inoltre, il mio lavoro consiste anche nell’allenare le abilità mentali, proprio come fa un personal trainer in palestra. Ho ideato un metodo chiamato “Performind”, un protocollo di tecniche e strumenti scientificamente validati, attraverso cui, con una programmazione quotidiana, alleno le abilità mentali dell’atleta (gestione di ansia e stress, recupero psico-fisico, concentrazione autentica, reattività e velocità di pensiero, gestione degli errori, autoefficacia, consapevolezza e molto altro). Tutto questo per accompagnare l’atleta nel raggiungimento della sua massima performance.
Per uno sportivo è difficile riconoscere la depressione?
Assolutamente sì, ed è difficile per vari motivi. Al di là dell’aspetto clinico, è complicato perché vivono in un ambiente in cui l’immagine esterna conta tantissimo. Lo sportivo, soprattutto il professionista, è percepito come un essere invincibile, realizzato, sempre in controllo. E questa immagine crea una barriera.
Riconoscono di vivere un periodo difficile, di sentirsi giù, spenti, poco motivati. Ma dare un nome a tutto questo, usare la parola “depressione”, è complicato. In molti casi è vissuto come un’ammissione di fragilità, e in questo ambiente la fragilità viene spesso fraintesa o mal vista.
“La difficoltà nel chiedere aiuto può essere legata anche al fatto che ‘sembrano avere tutto’ – fama, soldi, famiglia?”
Sì, esattamente. È un paradosso. Spesso mi capita di dire che i giocatori professionisti sono ragazzi “speciali”, ma non perché sono famosi. Sono speciali perché vivono una vita che non è normale: diete ferree, orari rigidissimi, rinunce, pressioni costanti, tanto tempo libero mal gestito.
Proprio il tempo libero è una delle insidie peggiori: non sono educati a riempirlo in modo sano. E allora, quel vuoto può portare alla spirale del malessere, anche senza arrivare a un quadro clinico completo.
“Quali sono, secondo la tua esperienza, i segnali più comuni e quelli più trascurati di una possibile depressione in un atleta?”
I più comuni sono:
- Pensieri disfunzionali e visione negativa della realtà.
- Difficoltà nella gestione del tempo libero al di fuori degli allenamenti.
- Perdita della motivazione, anche se giocano o vincono.
- Diffidenza crescente verso il proprio ambiente, anche verso le persone care.
- Disturbi del sonno e manifestazioni psicosomatiche(come infortuni ricorrenti, pubalgie, crampi).
- Aumento dell’irritabilità, con reazioni sproporzionate anche verso sé stessi.
I segnali trascurati spesso coincidono con quelli comuni. Ma uno dei più importanti è quando l’atleta inizia a percepire ciò che prima faceva con passione come un peso. Qui emerge un punto cruciale: la differenza tra motivazione intrinseca ed estrinseca.
Chi gioca per sé stesso regge meglio i momenti difficili. Chi invece lo fa per compiacere un genitore, per denaro o immagine sociale, è molto più vulnerabile.
Ecco a tal proposito, l’esempio di Agassi è lampante…
Ma ce ne sarebbero tantissimi altri da citare, in tante forme diverse. Anche Tamberi, per dirne uno: era un ottimo giocatore di basket, molto forte, era una sua grande passione. Però il padre lo ha indirizzato verso l’atletica, perché in quella disciplina aveva un talento talmente evidente che gli ha detto: “Se vuoi davvero diventare qualcuno nella vita, devi dedicarti all’atletica. Se invece vuoi essere una persona comune, ma provare emozioni che ti piacciono, allora continua pure con il basket”.
Hai citato un esempio familiare. Quanto influisce il contesto familiare nella gestione del benessere mentale?
Moltissimo. Ma attenzione: deve essere una famiglia sana. Se i genitori diventano i primi manager del figlio, più che il suo porto sicuro, è un problema. Quando invece la compagna o la moglie diventa il primo alleato, soprattutto con l’età, il supporto può fare la differenza.
I compagni di squadra? Dipende. Spesso sono anche competitor. Si cambia squadra spesso, è difficile creare legami profondi. A volte, però, succede. Ma nella maggior parte dei casi, è la famiglia che può davvero accorgersi e intervenire.
Spesso alcuni episodi familiari possono segnare l’atleta in maniera positiva e negativa. Ronaldo e Adriano hanno reagito diversamente alla perdita del proprio genitore. Perché lo stesso evento può avere effetti così diversi?
Perché tutto dipende da come ristrutturi il trauma dentro di te. Il trauma è lo stesso, ma il significato che gli attribuisci fa la differenza. Ronaldo ha trasformato la morte del padre in una spinta, Adriano ne è stato travolto. Il nostro lavoro non è far dimenticare il trauma. Non vendiamo illusioni. Il nostro compito è aiutare l’atleta a dargli un significato funzionale, che lo faccia andare avanti.
“C’è molta confusione, anche mediatica, tra psicologo dello sport e mental coach. Qual è la differenza?”
È una differenza enorme, ma spesso trascurata. Lo psicologo dello sport si occupa della persona, della sua salute mentale, della prevenzione e anche dell’allenamento e del potenziamento mentale. Il coach lavora solo sulle performance, ma non ha le competenze cliniche. Io, per esempio, integro entrambe le competenze.
Uso la dicitura “mental coach” solo per una questione di comunicazione. Perché purtroppo, per l’immaginario collettivo, lo psicologo “cura”, mentre il mental coach “allena”. Ma chi allena davvero la mente, chi lo fa con metodo e professionalità, è solo chi ha una preparazione clinica e scientifica alle spalle.
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Il Covid è stato un evento che ha cambiato tutto. Che effetti ha avuto sugli atleti?”
Ha tolto loro lo “schermo”. Niente campo, niente pubblico. Solo sé stessi. E molti non sapevano più chi erano senza quella dimensione. Chi era pronto, ha affrontato quel periodo come un’opportunità per lavorare su sé stesso. Altri si sono trovati persi.
È come un infortunio: se hai uno scopo (come tornare in campo), ti rialzi. Ma con il Covid lo scopo non c’era. Dovevi auto-generare la motivazione.
Qual è il messaggio più importante che vorresti far passare?”
Che non bisogna aspettare il momento in cui “stai male” per cercare aiuto. Lo psicologo deve essere una figura strutturale nel percorso dell’atleta, come il nutrizionista o il fisioterapista.
Non è una moda. Non serve per essere “fighi”. Serve per vivere meglio, più consapevoli e preparati anche ai momenti difficili.
Elaborare il fallimento: calcio vs sport olimpici
Nel calcio, se sbagli una partita, ne hai un’altra dopo una settimana. Hai poco tempo, ma subito una nuova occasione. Negli sport olimpici, come nel caso degli atleti che seguo, può passare anche un quadriennio prima della prossima possibilità. E lì cambia tutto.
Dopo un fallimento olimpico, il lavoro è lungo e profondo: si analizza la gara, si scompongono le emozioni, si coinvolge lo staff tecnico. Nel calcio, invece, il tempo è tiranno. Lavori spesso sull’effetto immediato, magari anche solo sul linguaggio interno, per rimettere il giocatore in condizione di affrontare la prossima gara con lucidità.
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Succede spesso: una “piccola” fa la partita della vita contro una “grande”, ma poi inciampa con le pari livello. Perché si gioca meglio contro le grandi squadre?
È psicologia pura. Contro una squadra come la Juve, l’identità del singolo e del collettivo cambia: non hai nulla da perdere. Entri in campo spinto dalla voglia di dimostrare, con la città, i tifosi, tutto che ti sostiene. Con una pari livello, invece, hai tutto da perdere: e spesso subentra la paura. Il lavoro lì è identitario: che tu sia la Juve o il Pisa, il mio compito è rafforzare la consapevolezza di chi sei, della tua identità in quel momento, non nel nome che porti sulla maglia.
Come prevenire ansia e depressione nello sport
Nel contesto sportivo, specie calcistico, non possiamo controllare l’ambiente: aspettative, pressioni, stipendi, media. È un sistema enorme, e spesso diseducativo. Però possiamo lavorare sulla cultura, sulla formazione emotiva e psicologica degli atleti.
Tre cose fondamentali per la prevenzione:
- Informazione corretta su chi è lo psicologo e cosa fa.
- Educazione emotiva sin da giovani, già nei settori giovanili.
- Normalizzazione del supporto psicologico: non è debolezza, è un valore aggiunto.
Se l’atleta capisce che chiedere aiuto è come allenarsi in palestra o curare un infortunio, allora avremo fatto un enorme passo avanti.
Qual è la cosa più bella del tuo lavoro, quella che ti fa dire: “Ne vale la pena…”
La cosa che mi emoziona di più è quando l’atleta si toglie il vestito da supereroe e si mostra per quello che è. Quando si apre, quando mi dona la sua parte più vera. È un dono enorme: sapere cose che spesso non conoscono nemmeno i genitori, gli amici, i compagni di squadra. Io sono uno sconosciuto che in quel momento diventa custode della sua verità. E quando poi ti guardano negli occhi e ti dicono “grazie”, anche solo per una parola che li ha aiutati… lì capisco che ne vale tutto.
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