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ESCLUSIVA MP – Nicoletti: “Allenare la mente prima dei piedi, ecco perché i giovani talenti crollano…”

La crescita dei giovani calciatori passa dalla mente: attenzione, emozioni, fiducia e gestione delle pressioni

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Nel calcio moderno, soprattutto nei settori giovanili, la corsa al risultato immediato rischia di oscurare la dimensione più fragile e allo stesso tempo più decisiva della crescita: quella mentale. Molte società privilegiano la selezione rapida rispetto allo sviluppo paziente, concentrandosi su chi “sembra pronto” nell’immediato e trascurando, spesso irreversibilmente, il percorso dei ragazzi già presenti in rosa. È in questo contesto che la figura del mental coach diventa non solo utile, ma necessaria.

Stefano Nicoletti, intervenuto in ESCLUSIVA ai nostri microfoni, lavora da oltre vent’anni proprio su questo confine sottile tra performance e benessere. Mental coach, formatore e fondatore del programma PlayTheNow, porta con sé un’esperienza trasversale: più di dieci anni fianco a fianco con atleti di ogni livello e disciplina, dai giovani talenti ai professionisti affermati, e una lunga attività nella formazione aziendale sulle soft skills. La sua competenza unisce preparazione scientifica, sensibilità, empatia e una profonda conoscenza dei processi attentivi ed emotivi che guidano la prestazione.

Il suo approccio parte da un principio semplice quanto rivoluzionario: non si può eccellere senza saper ascoltare e governare la propria mente. Attenzione, gestione delle emozioni, fiducia, collaborazione non sono accessori della prestazione, ma i suoi fondamenti. E quando non vengono allenati, anche il talento più evidente rischia di svanire sotto la pressione del risultato, dei giudizi esterni o di una crisi di fiducia.

Nicoletti ci accompagna dentro il cuore di un problema diffuso ma spesso invisibile: i blocchi mentali che colpiscono i giovani calciatori, le pressioni che arrivano dall’esterno, l’importanza di una guida competente e la necessità di un modello di crescita che ponga lo sviluppo, tecnico, strategico e mentale, al centro del percorso formativo. Un viaggio dentro la mente dell’atleta, per capire come si costruisce davvero la performance di oggi e soprattutto quella di domani.

Oggi molte società privilegiano la selezione rispetto allo sviluppo. Quali sono, secondo lei, le conseguenze a lungo termine di questo approccio sulla crescita dei giovani calciatori?

Si perdono molte potenzialità. Quando si lavora solo sulla selezione si tende a scegliere chi, in quel momento, sembra più “pronto”, ma così facendo si rischia di trascurare i giocatori già presenti in rosa, che vengono sostituiti senza aver avuto il tempo di sviluppare appieno le proprie risorse. Questo comporta uno spreco di talento e una crescita complessiva molto più fragile.

Quanto incidono davvero i fondamentali mentali — attenzione, gestione delle emozioni, fiducia, collaborazione — sulla capacità di un giovane atleta di emergere e restare ad alto livello?

Incidono in maniera decisiva. Anche il gesto tecnico, la tattica e la strategia non possono esprimersi al massimo senza un alto livello di attenzione. Lavorare sull’attenzione significa aprire un mondo: per raggiungere un livello davvero alto bisogna conoscere le proprie risorse, soprattutto quelle emotive, che spesso vengono “nascoste sotto il tappeto”. Le emozioni invece sono parte di noi e possono diventare una spinta nella prestazione. Senza una forte capacità attentiva, anche la miglior predisposizione rischia di perdersi in qualsiasi momento.

In che modo un ragazzo può allenare la propria capacità di attenzione e concentrazione fuori dal campo, nella vita quotidiana, per trasferire queste abilità in partita?

Dentro e fuori dal campo siamo la stessa persona, con sfide diverse ma con un mondo che ci bombarda di stimoli e che rende l’attenzione un bene sempre più raro. Allenarla è possibile in molti modi, anche semplici. Perfino i videogiochi, se usati con consapevolezza e per un tempo limitato, possono aiutare. Ma ciò che conta davvero è allenare la consapevolezza delle proprie sensazioni, perché sono le sensazioni a riportarci nel presente: ed è nel presente che l’attenzione si può davvero allenare ed esprimere al massimo.

Lei sostiene che molti talenti si perdono a causa di blocchi mentali non riconosciuti. Quali segnali dovrebbero cogliere allenatori e famiglie per intervenire in tempo?

Un segnale importante è quando l’attenzione dell’atleta è troppo orientata al risultato invece che alla prestazione. Se un giovane soffre eccessivamente per i risultati negativi, è sempre un campanello d’allarme. Bisogna prendersi il tempo per intervenire, altrimenti il rischio è un logoramento progressivo. Il punto di partenza deve essere sempre la passione: quando viene sostituita solo dall’ambizione, nascono la maggior parte delle frustrazioni che, portate avanti a lungo, possono sfociare nel burnout.

Se dovesse indicare tre strumenti concreti che ogni giovane calciatore dovrebbe apprendere per gestire pressioni, frustrazioni e aspettative, quali sarebbero e perché?

Il primo è la consapevolezza emotiva: capire come siamo fatti e come funzionano le emozioni. Spesso nello sport questi aspetti vengono lasciati indietro a favore della sola forza di volontà. Il secondo è conoscere come funziona la propria attenzione, cioè il modo in cui indirizziamo le nostre energie. Sapere come funziona significa capire come usarla meglio. Il terzo è sapere come allenarla: capire quale “gancio” offrire alla nostra mente per mantenere un buon livello di attenzione, con continuità e senza un dispendio eccessivo di energie nervose.

Quanto pesa l’ambiente esterno (genitori, social, aspettative societarie) nella creazione di blocchi mentali nei giovani atleti e come si può proteggerli da queste pressioni?

Pesa moltissimo, perché tutto ciò che è esterno rischia di diventare una grande distrazione dall’unica cosa che realmente conta: giocare. Sono le azioni in campo, momento per momento, a fare la differenza, non i giudizi o le aspettative degli altri. Isolarsi completamente è impossibile, ma è fondamentale allenare la capacità di riportare l’attenzione su ciò che si fa, sul gioco, sulle proprie azioni. È un vero e proprio allenamento mentale.

C’è un’età o una fase della crescita in cui è più facile intervenire sugli aspetti mentali, e una in cui diventa più difficile correggere certe dinamiche?

L’adolescenza è la fase migliore per intervenire: i ragazzi vivono già il cambiamento ogni giorno e sono più disponibili a mettere in discussione i propri schemi. Dai vent’anni in poi diventa più difficile, non impossibile, ma più complesso: bisogna mettere in discussione certezze consolidate, e questo richiede un lavoro più profondo.

Negli ultimi mesi diversi calciatori professionisti hanno parlato apertamente delle loro difficoltà mentali, come Gosens e Morata. Come si spiega questo fenomeno, considerando che in età adulta il cambiamento è più difficile?

Accade spesso quando c’è una crisi profonda. In adolescenza si lavora su un cambiamento fisiologico; da adulti, invece, si arriva a chiedere aiuto quando la crisi è già esplosa e non resta che affrontarla. A quel punto non è più un percorso di crescita naturale, ma un percorso di recupero dell’equilibrio personale.

Se potesse introdurre un cambiamento strutturale nel modo in cui le società italiane formano i giovani giocatori, quale sarebbe la prima cosa che modificherebbe?

Modificherei il lavoro di base. Inizierei ogni stagione con una vera e propria “fotografia” delle competenze di ogni atleta: tecniche, decisionali (tattica e strategia) e mentali. Da lì si potrebbero formare gruppi di lavoro dedicati allo sviluppo di ciascuna area, dedicando un giorno alla settimana — il più lontano possibile dalla partita — allo sviluppo mirato. Questo darebbe più motivazione e renderebbe l’allenamento più orientato a obiettivi concreti, integrando davvero la crescita del calciatore nel quotidiano.

MondoPrimavera ringrazia Stefano Nicoletti per la disponibilità e per la gentile concessione dell’intervista

Riproduzione consentita previa citazione della fonte Mondoprimavera
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