Il calcio dei grandi
Italia, una panchina che scotta: un tempo ambita, ora fa paura
Nazionale, la panchina dell’Italia scotta: dopo il no di Claudio Ranieri, anche Piolii ha declinato. Una volta era ambita, oggi fa paura

Cara Italia, hai perso il tuo fascino…
Una volta, la panchina dell’Italia rappresentava l’Olimpo del calcio italiano. Oggi, invece, è un compito che fa tremare i polsi, un incarico da cui molti preferiscono fuggire. Il recente esonero di Luciano Spalletti, avvenuto tra sussurri, tensioni e tempistiche discutibili, è soltanto l’ultimo capitolo di un crollo più profondo. L’Azzurro ha perso il suo fascino, e non solo per i risultati: da oltre un decennio la Nazionale non partecipa da protagonista a un Mondiale, e l’Europeo vinto nel 2021 – per quanto emozionante – si è rivelato un abbaglio, un’oasi in mezzo al deserto. Il disincanto attuale è il frutto di un sistema inceppato, non di una semplice sconfitta in campo.

Luciano Spalletti Italia
Una panchina che non fa gola
Il rifiuto di Claudio Ranieri ha lasciato il segno. Semplice scelta di vita o di cuore verso Roma, oppure una dichiarazione implicita di sfiducia verso un incarico che oggi offre più rischi che prospettive. Stefano Pioli, altro tecnico stimato e disponibile, ha ugualmente fatto un passo indietro (prossimo sposo della Fiorentina) E così, invece di guardare avanti, il dibattito si è ripiegato su un passato glorioso, evocando nomi legati al trionfo mondiale del 2006. Una scelta più nostalgica che razionale. Nelle ultime ore si parla tanto di Gattuso, De Rossi e Cannavaro. Tre simboli, tre profili molto diversi, accomunati però dallo stesso interrogativo: sono davvero pronti – o adatti – a raccogliere l’eredità di un ruolo così logorante?
Gattuso, l’uomo delle tempeste
Il nome di Gennaro Gattuso accende sempre il dibattito. È l’uomo delle tempeste, uno che non ha paura di sporcarsi le mani. Ovunque sia andato, ha portato carattere, intensità, un’idea precisa di gruppo. Dalla sua prima esperienza in Svizzera, passando per Pisa e Milan, fino alla vittoria della Coppa Italia con il Napoli, Rino ha sempre dimostrato di saper gestire spogliatoi complicati. Ha vissuto anche parentesi estere, tra Valencia, Marsiglia e Hajduk Spalato, portandosi dietro una reputazione di combattente instancabile. Non è un visionario, ma è uno che si assume le responsabilità, che non cerca alibi. Sarebbe il CT più pragmatico e concreto. Ma basterà l’istinto, in un contesto che chiede visione?
De Rossi, l’uomo mercato
Daniele De Rossi è il più giovane dei tre, ma anche quello su cui pesano aspettative più forti. La sua biografia parla da sola: bandiera romanista, campione del mondo, simbolo di leadership. Eppure, in panchina è ancora in fase embrionale. Ha affiancato Mancini a Euro 2020, poi si è lanciato alla SPAL in Serie B, senza fortuna. A Roma ha sostituito Mourinho in un momento difficile, riuscendo a restituire dignità e compattezza a un ambiente allo sbando.

Daniele De Rossi (ex Roma)
Ha riportato i giallorossi in Europa, ma anche la sua esperienza è stata segnata da alti e bassi, e un esonero a inizio stagione ha ricordato a tutti che l’entusiasmo non basta senza continuità. Il suo calcio è moderno, ispirato al pressing e al possesso, ma troppo legato agli umori della squadra. Ha il carisma, ma non ancora la gestione di lungo periodo. La domanda è semplice: può guidare un gruppo in cui ogni parola è una trappola e ogni scelta diventa politica? Oltre alla panchina della Nazionale, di recente è stato accostato anche a Parma e Cremonese, tuttavia le vie del mercato sono infinite, per cui…
Cannavaro, l’uomo simbolo
Fabio Cannavaro è un monumento vivente del calcio italiano, l’unico difensore ad aver vinto il Pallone d’Oro nell’era moderna. Ma la sua carriera da allenatore ha viaggiato più all’estero che in patria. È stato in Cina, negli Emirati, sulla panchina della Nazionale cinese, prima di esperienze brevi e poco incisive a Benevento, Udine e nella Dinamo Zagabria. In molti lo vedono più come una figura rappresentativa, un volto spendibile, più simbolo che stratega. Potrebbe restituire prestigio all’immagine della Nazionale, ma difficilmente sarebbe la guida capace di impostare una rifondazione vera e propria.

Gabriele Gravina, presidente Figc
Italia, un sistema da rifondare
Alla fine, non è il nome a fare la differenza. Il vero problema è la panchina stessa. Non è più un traguardo, è diventata una trappola mediatica, un campo minato da cui è impossibile uscire indenni. Luciano Spalletti è stato bruciato in pochi mesi, intrappolato in un ruolo che, senza visione e senza protezione, divora chi lo occupa. Chi verrà dopo di lui sarà inevitabilmente visto come l’ennesima “ultima spiaggia”.
Perché il punto è proprio questo: la FIGC non offre un progetto, ma un incarico. Senza autonomia, senza fiducia, senza margini d’errore. E allora non sorprende che arrivino i rifiuti: chi oggi accetta quel posto, sa di diventare il prossimo bersaglio. Chiunque sarà il prossimo CT dovrà essere più di un allenatore: un architetto della rinascita, un mediatore culturale, un simbolo credibile per il gruppo e per il Paese. Ma da solo non basta.
Serve che la FIGC faccia un passo indietro e tre avanti: restituisca dignità, progettualità e autonomia tecnica a chi guida la Nazionale. Serve che i club italiani tornino a credere nei giovani. Serve che il calcio italiano riscopra il valore della crescita, non solo quello del risultato immediato.
Forse oggi nessuno vuole quella panchina perché nessuno vuole più essere il capro espiatorio di un sistema rotto. Ma è proprio nei momenti più bui che servono figure coraggiose, disposte a rimettere insieme i pezzi. Il sogno azzurro non è morto. Ma per tornare a splendere ha bisogno di tempo, competenze vere, e soprattutto pazienza. La domanda, allora, non è più: “Chi sarà il prossimo CT?”
Ma: “Chi avrà il coraggio di ridare un senso all’Italia del calcio?”
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