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Parlando con un’amica, una ragazza al di fuori dell’ambito calcio, è uscita una frase che è diventata uno dei cliché più utilizzati: “Lui fa il difensore” ecco, il problema è che quel lui è un bambino che disputa un settore giovanile di base dei dilettanti nelle campagne lombarde.

“Duemila anni e nessun nuovo Dio!” Lo ha detto Nietzsche ma è una frase che può essere assolutamente esportata quando si parla del nostro calcio, perché non si producono più talenti, perché l’Italia del calcio non crea più Totti, De Rossi, Maldini o Del Piero, lo sa, ma non si chiede il perché.

In questi giorni tanti ex calciatori ed attuali attori del mondo del calcio sono entrati a gamba tesa su questo argomento. Dopo un’altra vittoria alla guida della propria Fiorentina Primavera Alberto Aquilani si è espresso a cronachedispogliatoio.it dicendo che: “C’è un abisso tra campionato primavera e Serie A, ci saranno cinque categorie di differenza, e questo non è un bene” e poi: “La Primavera ti prepara a un campionato minore, come la C e non alla A.” Gli ha fatto eco Alessandro Nesta che ha analizzato, alla Bobo TV elementi tecnici e tattici ma anche quegli strumenti necessari alla crescita del giovane: partendo dai tanto bistrattati centri di allenamento.

Per quanto riguarda la questione delle strutture in cui si allenano i ragazzi, la Serie A spende circa 4.6 milioni di euro a stagione, qualche migliaio meno della Ligue 1 e qualcuno in più della Liga: eppure in Francia ed in Spagna hanno il “cuore e l’occhio” così li ha chiamati Aquilani, per continuare a lanciare nuovi giocatori. Sotto il tappeto si nasconde quindi altra polvere. Il coraggio citato dall’ex centrocampista della Fiorentina è, effettivamente un’abilità che, nell’italico mondo del pallone abbiamo perduto. Già a partire dai dilettanti infatti si preferiscono giocatori già formati, soprattutto nei ruoli chiave della squadra: nelle prime squadre quelli che vengono definiti “quote under“ vengono spesso confinati o alla porta o sull’esterno ruolo ritenuto meno dannoso nell’equilibrio di squadra.

Si preferiscono prestiti, magari esosi, da società di rango superiore piuttosto che costruirsi e lanciare i ragazzi provenienti dal proprio settore giovanile. La retorica della “non esperienza” è un castello di carta ma, allo stesso tempo è una lunga “Linea Sottile” come la chiama Ligabue, che collega dilettantismo e professionismo: dalla Terza categoria alla Champions il nostro calcio non produce più talenti, perché non vuole iniziare a farlo.

Per parlare di un’altra problematica sollevata nei discorsi da bar, che diventano poi lo scudo di chi lavora davvero nel calcio bisogna tornare a quella chiacchierata con l’amica: i settori giovanili effettivamente formano?

Se la retorica della strada è vecchia e obsoleta è altrettanto vero che, nonostante il maggior “confort” e la maggiore inclusione date dalle scuole calcio, queste diventano un problema dentro il problema.
Nelle scuole calcio, anzi, nei settori giovanili come vengono chiamati ora, la frase principale è il motto di casa Juve: “Vincere è l’unica cosa che conta”. Per assecondare questo desiderio dunque è come se fossero state azzerate le categorie: che tu sia parte di un settore giovanile di base o sia già arrivato alla punta dell’Iceberg (la juniores in caso dei dilettanti o la Primavera in caso dei PRO) non vengono più insegnati i fondamentali: sbagliare uno stop,  è diventata una prassi, provare a scartare un avversario rischia di provocare una palla persa quindi ci si pensa più di una volta, quando il difensore ha la sfera deve “costruire” se però sbaglia e si subisce gol avrebbe dovuto spazzare in un gergo dialettale “alla vecchia” che fa capire davvero un’evoluzione del calcio che non è però per forza un progresso. I fondamentali non vengono più insegnati, non si lavora più sul piede debole, un semplice passaggio di piatto è una giocata banale, non più funzionale.

Tutti questi elementi sono parte di una piramide con un preciso scopo, come la torre di Babele: il presidente o il direttore sportivo di una data società (anche se nei dilettanti non ne si ha spesso il titolo) vogliono vincere. L’allenatore delle giovanili di turno viene quindi messo su una panchina con un esiguo rimborso spese, non ha il tempo di dare un’impronta vera e propria ma la sua squadra diventa un’espressione di matematica: i numeri dei moduli e le lettere di quelle disposizioni tattiche spesso copiate dai professionisti visti in televisioni dovrebbero portare al risultato finale, la vittoria.

Raggiungere il risultato,  tutto è in funzione di questo: il giocatore migliore della squadra è infortunato? Deve giocare, anche acciaccato: questa come una delle tante logiche, spesso imposte dalle stesse società che si sentono potenti a tal punto da avere il coltello dalla parte del manico e di poter far dipendere dalle proprie necessità (ad esempio la fissa presenza in campo di qualche figlio degli sponsor) una o più persone a cui, alla lunga, passa la magia del calcio. Senza considerare la grande quantità di ragazzi stranieri che popolano i campi dei settori giovanili un’altra, personale, problematica individuata è quella relativa alla presenza dei fuoriquota nelle categorie giovanili: ragazzi già formati che bloccano, in certi contesti, la crescita di giovani calciatori costretti alla panchina, o alla categoria appena inferiore: lo spazio, nonostante una possibile maggiore futuribilità, semplicemente non vuole essere creato, il motivo è che bisogna vincere, o che il ragazzo non è “pronto” senza averlo mai testato.

L’inutilità di certe categorie giovanili in cui è assente la competitività e si lotta soltanto per i meriti della propria prima squadra, la paura delle squadre professionistiche di seguire la politica della Juventus: tutti questi fattori ci hanno reso un movimento vecchio in mano ai vecchi, una lega divenuta supermercato dei top club, una Eredivise in salsa tricolore. O forse no, lì i ragazzi li fanno giocare.

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